Biagio Cepollaro

La poesia di ricerca. Difficoltà di una definizione-1.

La poesia di ricerca … Il termine è poco convincente … Perché il termine di ricerca è legato ad un pregiudizio scientista, ci si riferisce a qualcosa che è più avanti rispetto a qualcosa che è più indietro … poi c’è il pregiudizio linguistico: si sottolinea e si sottintende sempre con questo termine di ricerca in fondo l’insistenza sulla deformazione o sulla combinazione oppure sulla modificazione del piano linguistico. Questo è un pregiudizio linguistico tipico dello strutturalismo ma anche in genere del Novecento: come se il significato di questa arte dipendesse fondamentalmente dal linguaggio. Ciò in parte sicuramente è vero ma non può essere tutta la verità della poesia …

Il linguaggio non può essere tutto: oggi lo possiamo sapere, dopo che le avanguardie, le sperimentazioni linguistiche, le sperimentazioni che si sono concentrate sul linguaggio, sono diventate accademiche. Ecco: l’accademismo della cosiddetta poesia di ricerca mostra quanto sia inutile ritenere che il lavoro sul linguaggio per se stesso sia un elemento significativo. Al punto da identificare la poesia di ricerca con questo lavoro esclusivamente linguistico che non tenga conto delle altre dimensioni, cioè le dimensioni dell’extra-linguistico … In fondo l’extra-linguistico è il mondo che il linguaggio tenta comunque di catturare o di restituire nell’espressione estetica. Se si dimentica quest’altro momento, questo momento del mondo che è senza lingua, che attende la nominazione propriamente poetica, se si dimentica questo co-protagonista del fatto estetico, si finisce con il cadere nel pregiudizio, come dicevo prima, sia scientista, sia strutturalista e in genere linguistico del termine e dell’espressione poesia di ricerca.

Ricordo una volta che Pagliarani mi ascoltò ad una edizione di Romapoesia nel 2000 o nel 2001, non ricordo bene … In quell’occasione leggevo per la prima volta i testi di Versi nuovi (usciti poi nel 2004 da Oedipus) che erano scritti in italiano standard, a differenza dei miei pastiches precedenti. Questa lingua italiana standard era il contrario della complicazione e delle miscelazioni linguistiche che avevo fatto prima. Bene, alla fine della lettura, Elio Pagliarani mi disse: ‘Ma tu sei veramente un poeta sperimentale!’. Con questo voleva dire che la sperimentazione non coincide con il lavoro linguistico in se stesso. La sperimentazione è un atteggiamento di apertura nei confronti dei materiali che si usano. Il linguaggio, in definitiva, è semplicemente un materiale: questo materiale è lavorato in vista di un progetto espressivo. Quando il progetto non è chiaro il materiale diventa l’inizio e la fine del discorso poetico. ma questa soluzione non prova ad illuminare il mondo, è una forma di introversione della dimensione estetica e, in alcuni casi, di manierismo. Oppure come accade per lo più oggi, di accademismo.

2012

Biagio Cepollaro

Intervento video in occasione della presentazione a Napoli dell’antologia dedicata al Gruppo 93.

Gruppo93. L’antologia

Antologia a cura di Angelo Petrella

Editrice Zona

Presentazione al Palazzo delle Arti di Napoli (PAN) via dei Mille. 7 aprile 2011, ore 17.00. A cura di Costanzo Ioni

 

Sono contento per l’uscita di quest’antologia. Finalmente si può leggere qualcosa del Gruppo 93 e soprattutto i più giovani potranno conoscere queste cose. Si tratta di una poesia che non è lirica nella sostanza o che è anti-lirica o che dà nuovo fondamento alla lirica, se si preferisce. Credo che ciò che più mi ha interessato di tutta l’esperienza del Gruppo 93 sia stata la sperimentazione che puntasse al realismo, a smascherare la realtà, non a nascondere o  a decorare, che non puntasse alla consolazione ma alla drammaticità delle situazioni. Anche quando vi era parodia, anche quando vi era il gioco. Le varie anime del Gruppo 93 erano credo tutte accomunate da questa irritazione per la lirica, per la mitologia, per il ritorno al romanticismo che c’era all’epoca. Quest’atteggiamento critico dentro la poesia fu una cosa importante di cui ,devo dire, oggi si sente molto la mancanza… I risultati poetici, estetici, la godibilità dei testi si possono valutare solo se si leggono i testi. Per questo è importante che questa antologia proponga nel concreto il Gruppo 93, al di là delle polemiche che hanno contraddistinto la vita del Gruppo 93, i rifiuti pregiudiziali per un movimento che a chiare lettere prendeva le distanze anche dal fenomeno degli anni ’60 della neo-avanguardia. Queste polemiche spesso si risolvevano in pure sciocchezze perché mancavano l’oggetto, le concrete e determinate poesie. Queste poesie potevano essere interessanti o meno, piacevoli o meno, godibili o meno, belle o brutte ma per deciderlo occorreva leggere: altrimenti si parlava su niente. E spesso si parlò sul nulla, anche a mezzo stampa. Quest’antologia è completa perché offre un panorama dettagliato delle posizioni teoriche ma offre al lettore anche la possibilità di leggere i testi poetici. E questo è decisivo.

(2011)

Biagio Cepollaro

La ricerca in poesia e l’asintattismo

E’ chiaro che il termine ‘poesia di ricerca’ non può coincidere con una deformazione linguistica perché ad esempio se si accoglie il felice termine di Gillo Dorfles coniato alla fine degli anni ‘50 prima del Gruppo 63, prima dell’antologia dei Novissimi uscita nel ‘61, il termine che era di ‘asintattico’ per specificare alcune pratiche, anche poetiche, delle Neo-avanguardie, si compie un’azione con validità relativa… Il problema è che questo termine non copre l’intera gamma di sperimentazioni e non può tout-court identificarsi con la poesia di ricerca.Infatti paradossalmente si potrebbe dire che il settenario metastasiano di Giorgio Caproni era ancora più innovativo, nell’uso e nelle finalità ma anche negli esiti, di tanto asintattismo che ancora oggi si produce in maniera epigonale dagli anni ‘60. Così come profondamente  sperimentale e innovativo era il doppio novenario di Gozzano che aveva aperto la strada alla poesia narrativa… Senza quel raddoppiamento della misura versale non avremmo avuto probabilmente la facilità e la felicità della poesia narrativa né di Pavese, nè addirittura di Pagliarani, ancora più vicino a noi …

Dunque non è l’asintattismo che qualifica una poesia come una poesia di ricerca, non è la mancanza di evidenza di nessi logici o sintattici a qualificare la ricerca, il carattere di ricerca di una poesia … Oggi può anche essere tranquillamente valutato come epigonale uno stile che faccia affidamento integralmente su questa mancanza di nessi. Da Marinetti ad oggi sono state prodotte tantissime cose innovative a partire dal progetto dell’asintattismo: soltanto che quest’abitudine di ritenere ‘poesia contemporanea’ semplicemente la mancanza di una struttura logica ed evidente nella connessione tra le parole e quindi la preponderanza quasi surrealista, eternamente surrealista, del dominio dell’automatico, della scrittura automatica, ma anche, per altri versi, della scrittura casuale che è la stessa cosa, non può reggere … Perché può anche non essere  l’inconscio a produrre, può anche essere una sorta di oggettività casuale della scrittura ad autogenerare il testo poetico ma il risultato non cambia: siamo sempre nell’ordine di idee di una fondamentale mancanza di connessione sintattica ‘naturale’…Ecco si tratta dell’introduzione di una sorta di artificiosità che può essere sia inconscia sia macchinica, o addirittura generata dal computer … Queste differenze cominciano a diventare anche differenze di valore: basta guardarsi intorno e trarne le conseguenze con estrema facilità …

2012

Biagio Cepollaro

La ricerca in poesia: Emilio Villa ed Edoardo Sanguineti  a confronto.

Parte prima.

C’è da chiedersi se il Secondo Novecento debba trovare in Sanguineti oppure in Emilio Villa il vero principio motore per la poesia di ricerca. Diciamo che la diffusione del nome e delle opere (più del nome che delle opere) di Sanguineti e anche la sua oggettiva influenza sulla cosiddetta poesia di ricerca o della Neoavanguardia siano state notevoli. Emilio Villa, al confronto, è pochissimo conosciuto. Pochissime persone hanno potuto leggere e apprezzare le sue opere. Però se si notano le date delle poesie si scoprirà che Emilio Villa già negli anni ‘40 aveva anticipato molte vie, poi diventate canoniche, della ricerca poetica. Ma questo non è tanto importante perché non c’è il diritto di primogenitura … Ciò che conta è il modo in cui questa ricerca è stata impostata. Ecco, dopo Sanguineti, la ricerca sembra aver subito un destino di intellettualismo e di cinismo, come è stato teorizzato dallo stesso Sanguineti. Eppure non necessariamente la ricerca poetica e stilistica, vanno associate all’intellettualismo e a quella distanza un po’ supponente che la posizione cinica comporta nei confronti degli oggetti di cui si parla, dei materiali e dello stesso pubblico.  Nel caso di Emilio Villa, la postura, al contrario, era quella di chi era vittima, in qualche modo, di questi materiali … Villa era come ‘impastato’ dentro questi materiali e cercava sinceramente, eticamente, un modo per dare senso a quell’esperienza drammatica dell’Italia (o, come scriveva, dell’Itaglia, facendo il verso alla pronuncia della propaganda fascista) durante la guerra, della fine della guerra e degli anni della Ricostruzione … Niente a che vedere, insomma, con l’intellettualismo in fondo sterile di Sanguineti che raccoglieva da Pound un’eredità completamente sradicata, laddove Emilio Villa costruiva con i materiali autoctoni, anche se attraverso il plurilinguismo, costruiva lentamente una sua immagine del mondo …  Ma quell’immagine era decisamente fedele …

2012

Biagio Cepollaro

La ricerca in poesia: Emilio Villa ed Edoardo Sanguineti  a confronto. Parte seconda.

Si potrebbero mettere a confronto Villa e Sanguineti su di un piano come quello della dimensione orale. Mentre in Sanguineti l’insistenza fonosimbolica, per così dire, ha la funzione soprattutto di produrre dei giochi di parole, dei calembour, con una forte ironia e quindi desublimazione dei materiali su cui lavora, nel caso di Emilio Villa la dimensione orale ha la funzione di accorpare,aggregare,agglutinare in un accumulo elementi eterogenei. Ma questa aggregazione finisce con il presentare la realtà nella sua densità, nella sua complessità … Quindi lo stesso elemento, la stessa importanza data alla dimensione orale, in Sanguineti finiscono con il sortire un effetto tutto sommato ludico e talvolta virtuoso, mentre invece in Villa hanno una funzione conoscitiva: è il mondo, è la realtà che viene esplorata attraverso questo modo di far funzionare la vicinanza sonora tra le parole.

2012

Biagio Cepollaro
La ricerca in poesia: Emilio Villa ed Edoardo Sanguineti a confronto. Parte terza.
E’ interessante notare come nel caso di Emilio Villa la ricerca poetica sia stata molto influenzata dal rapporto con artisti come Alberto Burri o con gli artisti che meglio raccoglievano gli stimoli che provenivano dall’Europa e dagli USA dopo l’apertura seguita alla caduta del Fascismo. Come si sono manifestati questi stimoli? Probabilmente attraverso una sensibilità per il materiale della scrittura. Quindi pittura materica da una parte e dall’altra maggiore sensibilità per la lingua come materiale, come materia.
E poi è interessante il fatto che il realismo in Villa non si è mai disgiunto da un’acquisizione non-mimetica dell’arte: questa era sicuramente una qualità molto rara nel periodo del Neorealismo agli inizi degli anni ‘50. Villa parte con una sperimentazione sul linguaggio che si faceva carico delle ricerche in ambito artistico e delle acquisizioni estetiche che in quel periodo nel mondo della pittura erano sicuramente più libere, più spregiudicate rispetto a quelle per lo più presenti in letteratura. Se si confronta questa mobilità, questa diversità, talvolta anche caoticità, riscontrabili tra i testi stessi di Villa lungo il percorso degli anni, se si sottolinea questa sua libertà di invenzione formale e si confronta tutto ciò con il percorso compiuto dall’opera di Sanguineti, soprattutto quella della seconda fase del suo itinerario,quella seguita all’orbita poundiana di Laborintus, quella invece più crepuscolare, si vede come quest’ultima appaia come una sorta di colto ornamento di un Io alto-borghese che critica il mondo ideologicamente, lasciandone in piedi le impalcature. Viceversa nel caso di Villa si assiste ad una sorta di sisma continuo dal punto di vista dei punti di partenza cognitivi: non c’è un’ideologia. Il suo impastarsi con le cose dette fa sì che il senso delle sue azioni estetiche emerga di volta in volta dalle singole opere. E’ stato difficile raccogliere tutte le opere di Villa anche perché le aveva disseminate in opuscoli, opuscoletti, cataloghi: insomma una serie di dispersioni … Però questo carattere ‘dispersivo’ di Villa sta a testimoniare la sua estrema ricchezza a fronte invece di un’attenzione un po’ da contabile per la produzione che taluni autori finiscono con l’avere per eccesso di sorveglianza. Quello che invece si trova in Villa è una sorta di eroico furore, per dir così, che coglie un nucleo vivo dell’essere e dell’essere creativi.
2012

Biagio Cepollaro

La ricerca nella poesia di Giulia Niccolai: Frisbees della vecchiaia, Campanotto editore, 2012

Credo che sia caratteristica dei casi migliori che la ricerca in poesia coincida con la ricerca tout court, con la ricerca esistenziale, intellettuale, emotiva, con la ricerca spirituale, come nel caso specifico di Giulia Niccolai che con i suoi Frisbeees della vecchiaia dona a tutti noi qualcosa che va molto al di là dell’invenzione letteraria. Innanzitutto questo è un libro che dimostra che il cosa dire costringe il come dirlo, mostra che in fondo vi è una priorità nell’esperienza umana, spirituale, intellettuale … Il talento poetico riesce poi a realizzare formalmente questa priorità in nuova poesia o in poesia che non spesso si è ascoltata o che addirittura mai si è ascoltata perché vi sono delle invenzioni che sono tanto più radicali quanto più la ricerca che viene realizzata è puntuale, personale, unica. Ecco, Giulia Niccolai fa sì che il cosa dire ponga una retorica in fondo nuova, ma senza la volontà di novità perché anche la volontà di novità in se stessa è in fondo una forma di superficialità. In alcuni casi non importa che si dicano cose nuove, importa che si dicano cose vere. Cose vere perché verificate dalla propria esistenza. Noi possiamo notare in questo libro un’assoluta indifferenza nei passaggi tra prosa e poesia.

La distinzione della prosa, del racconto e dell’aneddoto oppure la contrazione nella massima, nella sentenza, di volta in volta conducono il gioco. Nel primo caso possiamo parlare di una narrazione prosastica mentre nel secondo caso di una narrazione poetica: quello che conta è la narrazione, ciò che appunto viene detto. E’ interessante notare che di fatto l’inizio e la fine di ogni testo non sono decisi a priori da una forma, spesso i testi ‘si continuano’, quasi improvvisamente quando sembravano finiti. E quasi senza volerlo, come succede nei ripensamenti e nelle associazioni involontarie.

Le finzioni letterarie qui vengono a suggerire le illusioni, il contenuto che la vita pone, le vere illusioni, a cominciare da quella dell’io, a cominciare da quella della permanenza delle cose. All’interno di una dimensione dell’esperienza dell’impermanente la finzione letteraria duplica la finzione che la realtà stessa oppone alla visione ordinaria dell’uomo. E’la visione illusa, la visione ingannata. Questo libro accoglie sullo stesso piano personaggi e nomi che vanno da Wittgenstein a Novalis, a Luciano Erba a Manganelli, così come accoglie i nomi degli amici oppure le figure del quotidiano che attraversano la città nei modi più disparati. Tutto ciò a significare l’imprevisto che è il senso ritrovato a partire da punti di vita non convenzionali perché provano a rompere la rete di illusioni della vita quotidiana.

Questo secondo me è un esempio di poesia di ricerca perché è un esempio di poesia di risultato. Qui la ricerca porta ad un risultato.

Biagio Cepollaro

L’idea di poema per Elio Pagliarani, Luigi Di Ruscio, Giancarlo Majorino.

Il 12 gennaio 2012 c’è stato un incontro nei locali della libreria Feltrinelli di via Manzoni a Milano tra Luigi Cannillo, Tiziano Rossi, Angelo Lumelli, Giancarlo Majorino e me intorno al tema della forma , dell’idea del poema a partire da due casi specifici del Secondo Novecento, Elio Pagliarani e Giancarlo Majorino. A questi due poeti ho aggiunto anche il caso di Luigi Di Ruscio. Si è fatto il punto, o almeno è cominciato il lavoro per fare il punto, su questo tema, su cosa significa il poema, cosa ha significato per questi autori. Le note che seguono sono per ora relative ai tratti più dichiaratamente stilistico-formali della questione.

Si può notare come per tre poeti che nascono,si radicano negli anni ‘50 e che sono molto diversi tra loro come Elio Pagliarani, Luigi Di Ruscio e Giancarlo Majorino, si può notare come per questi tre poeti il poema, inteso come una totalità di versi sia  obiettivo importante da perseguire. Talvolta questo obiettivo è perseguito per decenni come nel caso di Pagliarani, come nel caso di Majorino, come nel caso anche di Di Ruscio, C’è da chiedersi questa misura del poema cosa in realtà è stata per costoro: tre poeti che si radicano nel realismo ma che del neorealismo non hanno nulla perché ne prendono quasi immediatamente le distanze. Questo è molto interessante perché sono tre poeti in cui in misura diversa e con diversi esiti e diversi risultati, la relazione tra realismo e sperimentazione linguistica è forte.

Con diversa consapevolezza. E dunque cosa ne è di questa idea del poema? La prima cosa che si può notare è che per Pagliarani il poema viene fuori ( da La ragazza Carla a La ballata di Rudi) viene fuori quasi come un romanzo mancato. Quindi l’archetipo che è dietro il poema per Pagliarani probabilmente è quel romanzo anti-novecentesco che lui non riuscirà mai a scrivere ma che grazie a quest’impossibilità ci  darà la possibilità di avere una rivoluzione vera e propria in poesia. Prima de La ragazza Carla i tentativi di fare della poesia narrativa c’erano stati: erano stati quelli di Pavese e prima ancora quelli di Gozzano. Non era per nulla una strada facile quella della poesia narrativa. Grazie a La ragazza Carla noi abbiamo la possibilità di immaginare per la poesia un linguaggio basso-quotidiano con un’articolazione di registri diversi che è davvero l’alternativa all’ermetismo che ancora continuava in Italia nel dopoguerra, Non bastava la teatralizzazione della poesia che fa Luzi per abbassare i registri: da questo punto di vista l’invenzione di Pagliarani era stata definitiva, esaustiva. Dall’altra parte Di Ruscio ambisce anche lui al poema ma nel senso di una totalità  che ha come sua archetipo la vita stessa, il flusso di coscienza, un flusso che ha del viscerale e del vitale, che è talmente travolgente da annettere a sé qualsiasi territorio, qualsiasi argomento, qualsiasi tema. Per Majorino, invece, il poema è l’archetipo del poema, una totalità che però non si può più ricostruire. Il suo poema che lo ha impegnato per tanto decenni è un insieme di tentativi di ripristinare un’idea di totalità nell’impossibilità di configurarla, di esprimerla questa totalità … Direi che per l’idea di poema nel Secondo Novecento questi siano alcuni casi interessanti su cui iniziare a riflettere in questo senso e da cui partire.

Un altro punto da cui partire potrebbe essere quello della posizione dell’io. Nel caso del poema di Majorino l’io sembra essere un luogo di relazione. All’interno di questo luogo vi è come un’orizzontalità di situazioni e di interazioni. Questo io si estende ed accoglie una dialettica tra i frammenti che vanno a costituire il poema. Nel caso di Pagliarani l’io è completamente assente, è dietro maschere teatrali e la sua funzione è quella di offrire un giudizio critico sull’esistente. L’io nascosto e mascherato è testimone razionale di ciò che accade nei processi sociali e nelle trasformazioni (il tempo prescelto è quello dell’impatto antropologico del boom economico e, più tardi, dell’avvento della finanza nelle società europee). Nel caso di Di Ruscio l’io è mosso ad essere immediatamente sociale come se nel suo fluire si dissolvesse negli altri io intesi come classe sociale. Di Ruscio è stato operaio per tutta la vita in Norvegia dove era emigrato nel 1953. Aveva partecipato alle lotte operaie norvegesi e goduto delle conquiste di quel movimento operaio: senza la riduzione dell’orario di lavoro, diceva, non avrebbe mai potuto studiare e scrivere poesie. Di Ruscio ha lavorato alle sue opere nella solitudine linguistica più totale: l’italiano per lui coincideva con la lingua della poesia. L’io di Di Ruscio che è prepotente e prorompente in realtà si dissolve nella classe in questa specie di soggettività operaia, letta però in chiave fortemente vitalista. Nei tre poemi è possibile verificare anche delle insistenze: ad esempio vi è l’interesse per il singolo lessema, oggetto di connotazione, nel caso di Majorino mentre le citazioni di Pagliarani possono riguardare interi blocchi di trattati disposti teatralmente con funzioni di straniamento alla Brecht. In Pagliarani vi sono soprattutto variazioni a livello di registro retorico più che a livello micro-linguistico. Pagliarani è bravissimo ad orchestrare questa varietà di registri retorici a partire dal basso -colloquiale che è riuscito a rendere in scrittura. La sua vocazione per l’oralità si manifesta nella scrittura come una simulazione del parlato che è estremamente efficace, anche con l’uso di rime semplici come in -are, che riesce a ‘riscattare’ attraverso l’ironia … Nel caso di Di Ruscio l’insistenza è sulla paratassi parossistica. Non si tratta semplicemente di un accumulo: è l’esasperazione parossistica di una tendenza a dire. E’ proprio una violenza del dire che può anche diventare gioiosa, può anche diventare fonte di godimento, sempre a patto che sia sempre sotto pressione e che sia, appunto, un parossismo …

2012

Biagio Cepollaro: i Maestri (da Scribeide 1985 a Le Qualità 2011).

A partire da una richiesta stimolante di Luigi Bosco colgo l’occasione qui per ripercorrere in breve la mia storia attraverso i miei maestri, leggendo alcuni versi di Jacopone da Todi, di Pagliarani, di Eliot e di Lao Tzu. Maestri lontani tra loro nel tempo e nello spazio ma egualmente indispensabili per me e a cui va tutta la mia gratitudine.

Trascrivo qui il mio racconto.

 

Per me maestri sono stati tutti coloro che attraverso le opere, o attraverso le parole, hanno avuto influenza sulla mia scrittura e sulla mia evoluzione. E’ piuttosto difficile districarsi in un campo di influenza così complesso tra ciò che è strettamente letterario e ciò che invece è più largamente umano. Posso dire che sicuramente le prime opere come Scribeide (1985-1989,edita presso Piero Manni nel 1993 con prefazione di Romano Luperini) e Luna persciente (1989-1992, edita presso Carlo Mancosu editore nel 1993 con prefazione di Guido Guglielmi) devono moltissimo al fascino che esercitava su di me Jacopone da Todi con le sue Laude… Autore lontanissimo … Tra i primi della storia della letteratura italiana … Un autore che non era ancora passato attraverso la normalizzazione petrarchesca della lingua … Un autore che dava la possibilità di percepire la lingua italiana in tutta la sua crudezza e rudezza corporale, senza essere raffinata con quel lavoro che Petrarca fa e che Bembo poi codifica condizionando l’intera storia della poesia.

Devo a Jacopone quest’idea della sonorità di ogni singola parola, l’idea della deformazione lessicale, l’idea di poter, attraverso dei suffissi, ottenere un effetto espressionista. Soprattutto l’idea che sia il corpo a parlare, senza la mediazione di una cultura cerebrale …

Un altro maestro, sempre antichissimo, è stato Brunetto Latini per la sua intenzione enciclopedica nel Tesoretto … E’ stato l’ispiratore del mio Luna persciente che esce nello stesso anno di Scribeide nel 1993 ma è stato scritto dopo. Brunetto Latini con questo Tesoretto dava allo stesso Dante l’idea di cosa poteva fare la poesia didattico-allegorica. Quest’idea di una poesia che pensa, che sa, di un sapere poetico che non si limita al mondo dei sentimenti ma che si estende quasi a qualsiasi argomento per dare una sintesi di valore utile per l’esistenza, era un’idea che mi proveniva per la sua semplicità proprio da Brunetto Latini. Luna persciente in qualche modo reinterpreta quest’intenzione del Tesoretto anche se diventa, attraversando i secoli, quasi irriconoscibile quest’origine. Nel 2002 con l’uscita  presso Zona editrice di Fabrica (1993-1997), prefata da Giuliano Mesa, è evidente che la relazione con la tradizione è cambiata. Non vi è più una lingua che tenda all’arcaismo, al neologismo o alla deformazione ma in Fabrica vi è la lingua italiana standard. Qui il punto di riferimento diventa con più precisione, e quasi visibile, l’opera di Pagliarani. il maestro della poesia colloquiale, della poesia che tratta di argomenti non ‘poetici’, della poesia che si costruisce attraverso il montaggio di temi, di interi brani citati, di una poesia tutta tesa all’extraletterario, a quel mondo della realtà anche sociale che si vuole in qualche modo dire. Fabrica fu appunto questo. Qui c’è un cambiamento notevole di accento anche se l’opera fa parte della trilogia che ha come titolo De requie et natura, titolo lucreziano per una trilogia che inizia con Scribeide, continua con Luna persciente e si conclude, appunto, con Fabrica. Pagliarani è considerato un maestro da me per questi motivi ed è apparentato ad autori lontani e diversi come Jacopone e Brunetto Latini: questo potrebbe confermare la mia ipotesi critica del postmoderno critico, esserne un segno. Non c’è l’azzeramento della prospettiva storica ma c’è una confluenza, una compresenza motivata di fasi storiche diverse. Un incontro di maestri così lontani sarebbe stato impensabile credo negli anni ‘50 o ‘60: nel momento in cui il Moderno si rappresentava come superamento continuo della tradizione o come riottura con la tradizione. Certo, anche nel mio caso c’era una volontà di rompere ma non con le tradizioni ma con il presente. Si trattava di un presente neocrepuscolare, neoromantico, neomitologico … Presente che era l’obiettivo polemico dei discorsi che facevo insieme ai miei amici del Gruppo 93, più di venti anni fa … Al di là delle polemiche restava un riferimento a tutte le fasi della tradizione o delle tradizioni, senza però una concezione consolatoria della poesia, ma come Pagliarani insegnava, secondo poi il suo maestro che era stato Brecht, occorreva dare un senso critico all’intervento letterario perché fosse foriero di illuminazione dei contrasti e dei conflitti della realtà. Il poeta si faceva carico anche di questo compito etico ed intellettuale e, in qualche modo, anche politico. Certo che in questa intenzione di realismo critico, di realismo sperimentale non c’era solo Pagliarani a far da maestro. Vi erano anche altri autori che ho potuto frequentare anche di più abitando a Milano: penso a Majorino, a Leonetti e alla collaborazione alla rivista Campo che era stata resa possibile dall’ospitalità di Arnaldo Pomodoro. O penso a poeti incontrati abbastanza spesso o in contatto telefonico come Luigi Di Ruscio o, ad Amelia Rosselli distante perché a Roma ma per me preziosissima amicizia … Anche i rari incontri con Paolo Volponi sono stati determinanti nell’indirizzare, anche con poche battute, verso un campo di ricerca anziché un altro.

Poi ad un certo punto quando ho scritto Versi Nuovi che è uscito nel 2004 le cose sono un po’ cambiate nel senso che i maestri sono diventati altri, anche se l’effetto di tutte queste influenze era diventato mia carne stessa … Incomprensibile sarebbe stato il mio lavoro senza il riferimento a questi autori. Con Versi nuovi comincio ad interessarmi ad altre esperienze anche non letterarie in senso stretto, esperienze che in qualche modo mi erano state indicate da un altro maestro -maestro per molte generazioni di poeti- come Eliot: la riflessione intellettuale che diventa indagine su una spiritualità possibile nella concretezza materiale dell’esistenza. Senza abbandonare il punto di vista realista si è trattato di estendere l’indagine anche alla dimensione più sottile dell’esistenza, verso una forma di poesia che potrei dire ‘sapienziale’. L’ultimo Eliot per me diventa un vero maestro che va ad affiancare i maestri orientali. E’ questo l’incontro che si precisa sempre di più con Lavoro da fare (2002-2005) edito in e-book con prefazione di Florinda Fusco nel 2006 e in cartaceo nel 2013 con prefazione di Andrea Inglese (nel momento in cui registro è in corso di stampa). Tra i maestri orientali in primis il fondatore dall’antico taoismo Lao-Tzu, Varie esperienze, anche non letterarie in senso stretto mi porteranno a frequentare ambienti  come quello di un Lama tibetano che viveva e insegnava a Milano. E tale incontro mi fu possibile grazie a Giulia Niccolai, poetessa e monaca buddista che in questa fase fu per me molto importante. Questa per me fu l’occasione di una dimensione dell’esperienza decisamente diversa da quella tradizionale occidentale. Attraverso la sintesi di tutte queste esperienze arrivo a scrivere Le Qualità (edito nel 2012 presso La camera verde di Roma). I maestri qui sono appunto i grandi classici del taoismo, dell’induismo e del buddismo mediati però dalla nostra tradizione letteraria, dalla tradizione della poesia ‘tersa’, dalla tradizione della poesia ‘onesta’ come avrebbe detto Saba e , inoltre, passando attraverso il disincanto che la criticità può dare. Criticità che la stessa combinazione di maestri così diversi può sortire: sono partito da Jacopone all’origine della nostra tradizione letteraria e arrivo a Lao-Tzu all’origine della filosofia taoista cinese. E’ come un richiamo continuo dell’origine per ripensare l’insieme del percorso. E forse è un momento questo, in cui la percezione della storia si è assottigliata nella coscienza media, è forse un momento questo in cui le origini vanno riattraversate con un’intensità non cerebrale ma vissuta con una vera intensità. La poesia dà la possibilità di attraversare i temi culturali  grazie ad una sorta di incarnazione del poeta stesso, ponendosi come reale esperienza a tre dimensioni di questi temi. Dunque i maestri possono provenire  da tempi e luoghi diversi: quello che conta è utilizzare questi insegnamenti  e di sperare, non di eguagliarli, ma almeno di metterli a frutto in modo da rendere le opere più riuscite, più all’altezza dei problemi che il proprio tempo e la propria vita pongono incessantemente

2013

Biagio Cepollaro

Video poesia o PoesiaVideopoesia

In occasione della rassegna Frames e Poiesis.

Galleria 10.2  via Volvinio 30 Milano

dal 12 al 28 febbraio 2013.

Spesso ricerche interessanti sono nate a partire dall’utilizzo sperimentale di nuovi media. E’ un filone della ricerca tecnologica legata alla poesia sviluppato nel corso del Novecento, soprattutto della seconda metà del Novecento. Esiste già una tradizione di un settore di questo filone, ormai consolidato, a cui è stato dato il nome di ’videopoesia’. Questo campo di ricerca nasce all’interno della video arte ed è impensabile senza la relazione con l’invenzione prima della televisione e poi del computer. Vi è una connessione tra queste invenzioni e la sollecitazione operata sull’invenzione artistica: innanzitutto sull’arte trattandosi di immagini ma poi la poesia ha presto trovato un suo settore di ricerca specifico. D’altra parte Marinetti e il Futurismo, la poesia tipografica avevano già anticipato queste possibilità di legare l’invenzione estetica alle caratteristiche di un determinata tecnologia di produzione e di stampa. Sotto l’etichetta di video poesia però si raccolgono cose diverse: dalla semplice documentazione di reading di poesia ad opere dove il testo poetico non ha rilevanza ma ne ha invece il video, e quindi si tratta di video arte. Bisogna intendersi e precisare. Chiamiamo videopoesia o , forse bisognerebbe dire meglio poesiavideo, un’opera in cui è determinante tanto il testo poetico nella sua complessità quanto il video nella sua complessità: è la relazione che si stabilisce tra i due piani di complessità a costituire lo specifico. Questa relazione è all’insegna di una isotopia: si tratta di una ripetizione di un elemento formale proprio allo specifico della retorica poetica e della retorica del video che non è mimesi, non è illustrazione, è ripetizione non mimetica ma formale , strutturale che arricchisca la valenza semantica complessiva. Non vi è insomma né illustrazione né contenutismo: questa relazione di isotopia riguarda esclusivamente le dimensioni formali delle due arti. Bisogna esser chiari su questo: ogni qual volta ci si trovi di fronte ad un video che illustri un testo poetico non stiamo di fronte ad un’opera di videopoesia o poesiavideo ma di documentazione di un testo poetico, mentre se ci si trova di fronte ad un video dove il video è preponderante sul piano dell’elaborazione formale e il testo poetico è irrilevante  allora siamo di fronte ad un’opera di video arte. Bisogna dunque cercare in queste opere, nell’ipotesi critica che qui si avanza, sempre l’isotopia che accomuni e che arricchisca i due versanti. Questo discrimine potrebbe risultare utile sul piano del giudizio di valore per orientare e per contribuire a stabilire la bontà, la riuscita estetica di un determinata opera di video poesia o poesiavideo, o anche a stabilire la chiave di lettura più adeguata secondo l’ambito di ricerca in cui quell’opera si è mossa.

Biagio Cepollaro

Poesia e Pensiero critico-1

Poesia, Soggetto e Società del debito.

Ma poi c’è una differenza così netta tra una poesia lirica che si è costruita intorno alle sorti, alle vicende e alle sorti linguistiche dell’Io lirico e, dall’altra parte, una poesia che si vuole, si pretende senza soggetto? Si tratterebbe in quest’ultimo caso di una poesia che procede secondo un flusso ordinato, non appartenente praticamente a nessuno … Come uno sguardo senza chi guarda … Questa pretesa di oggettività si dovrebbe contrapporre ad una pretesa di soggettività della poesia lirica. Ci sarebbe dunque l’esagerazione, il traboccare della soggettività da una parte e il deserto, la radicale assenza tendenziale di soggettività nell’altro modo di intendere la poesia.

Ma come si pongono queste due visioni  rispetto al pensiero critico? Come si pongono rispetto a quel pensiero che prendendo le mosse, per citare solo alcuni, da Adorno e dai francofortesi  passa per Lyotard, Baudrillard,Virilio fino a Foucault? Come si pone rispetto al pensiero critico nei confronti della realtà questa forma del soggetto poetico degli ultimi decenni ?  Rispetto al pensiero che ha posto al centro della propria attenzione le sorti della soggettività in questo mondo, come si pone questo tipo di alternativa poetica? Questa può essere una questione interessante per stabilire quanto la poesia oggi possa far parte di un più generale contributo al pensiero stesso e non ridursi a mero esercizio verbale più o meno gradevole esteticamente. Si potrebbe stabilire se oggi la poesia, come spero, abbia davvero una sua funzione conoscitiva. Secondo me dovrebbe in qualche modo e a qualche livello provare a misurarsi con questi temi.

Ci troveremmo in parte di fronte a una poesia senza soggetto che è mimesi e puro rispecchiamento dello   svuotamento che la soggettività contemporanea deve subire per le varie forme di colonizzazione – come si diceva una volta- del suo immaginario. Tali processi oggi hanno mutato sul piano antropologico i modi di percepire, relazionarsi, di comunicare, di sentire, di autorappresentarsi degli uomini, almeno in Occidente. Vi sarebbe dunque una poesia che è una pura versione mimetica, lo specchio di quest’assenza di soggettività e dall’altra parte ci sarebbe al contrario una poesia che occulta questo svuotamento, lo occulta attraverso una menzogna consolatoria e compensativa che ci presenta questa soggettività colma, piena, addirittura tronfia, talvolta, a fronte invece di una miseria reale che viene appunto taciuta, rimossa proprio grazie al discorso poetico, e in genere, estetico.

Il contesto contemporaneo non è più quello della società dei consumi, tale contesto è già trapassato in altro: quella di oggi è la società del debito. La soggettività sembra costretta a rinchiudersi in se stessa, è una soggettività definita eufemisticamente come dell’austerità: non ha più il godimento, mercificato quanto si voglia ma comunque godimento, come sua finalità presunta. Questo contesto è piuttosto quello del restringimento del desiderio, della paura, della paura di non farcela … E’ questa l’antropologia che gli ultimi anni sembrano profilare per quest’Occidente impaurito dalla riduzione del ceto medio a tendenziale plebe, rispetto alla nuova feudalità finanziaria.

Se i rapporti di forza cambiano in questo modo sembra che l’attività artistica debba in qualche modo o scoprire le carte oppure coprirle ancor di più. Quindi o si esaspera l’aspetto consolatorio (con la poesia lirica  ma anche con la poesia senza soggetto, gioco verbale)oppure si dichiara in maniera forte, senza infingimenti e opportunismi, la dimensione critica dell’attività poetica e artistica. Bisogna essere chiari e mettersi d’accordo su questo: se mimare il vuoto con le parole oppure denunciarlo, opponendo al nichilismo delle esperienze minime ma concrete , sfuggite alla desertificazione.

2013

Nota

Il riferimento relativo alla società del debito è al lavoro di Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, Deriveapprodi, 2012.

 

Biagio Cepollaro

Poesia e pensiero critico-2

Arte conciliata e arte inconciliata

Ancora alla fine del Novecento, la questione posta da Adorno relativamente all’arte “conciliata” o “non conciliata”, “pacificata” o “non-pacificata” con il mondo passava attraverso scelte di stile. Una parte consistente della Modernità sembrava interessata a stabilire delle relazioni “critiche” con il mondo e lo esprimeva cercando di impedire la facile leggibilità, come si diceva allora, “la trasparenza” … Piuttosto si preferiva “l’opacità”, rendere difficile la comprensione dei testi.

Questo perché occorreva interrompere il flusso menzognero e ideologico della comunicazione sociale, si trattava di andare nella direzione opposta a ciò che il pubblico attendeva, si aspettava da un’opera d’arte. Era la famosa posizione di Baudalaire sull’impressionare, lo scandalizzare il borghese … Ma quando tutto questo è diventato quasi accademico, privo di stimolo reale, una maniera, anche questa illeggibilità è venuta a noia, ha perso il suo significato originario e critico. Questo è accaduto contemporaneamente all’affermarsi del clima e della cultura postmoderna alla fine del Novecento.

Vi era allora un bisogno di ritornare, come si diceva, alla leggibilità. In fondo vi era anche il desiderio di creare un mercato per questo tipo di opere letterarie. Le motivazioni erano da un lato disinteressate e dall’altro lato invece interessate … Ma le une e le altre non hanno avuto grandi effetti: se oggi noi consideriamo la produzione poetica, per lo più la mancanza di  criticità nei confronti del mondo non si associa alla trasparenza ma indifferentemente a dei testi opachi, oppure meno opachi, o addirittura “evidenti”. Questo vuol dire che la difficoltà creata attraverso il gioco verbale non ha più il pathos del non conciliato e del non-pacificato, quindi della protesta …

E a questo punto non si capisce cos’è: se fosse una ricerca in qualche modo significativa, sortirebbe dei significati, alla fine. Noi potremmo fare dei bilanci, stabilire delle relazioni tra questi testi e il mondo.

Invece per lo più la produzione quantitativamente notevole di testi poetici non si associa ad una evidente ricchezza conquistata sul piano della conoscenza di questo mondo, non dico critica, ma anche semplicemente una lettura del mondo in cui noi siamo costantemente immersi.

Questo potrebbe risultare un limite per la produzione poetica: l’aver dimenticato quest’opposizione adorniana tra il conciliato e il non conciliato, tra il pacificato e il non pacificato. Si tratta della responsabilità che ha lo stile nell’esprimere questa pacificazione con il mondo, oppure la rivolta e il rifiuto.

2013

Biagio Cepollaro

Un pensiero per Gianni Toti

2013

Ho visto Gianni Toti alcune volte a Milano negli anni ’90 in occasione dei convegni del Gruppo 93 e delle edizioni di Milanopoesia, tra il 1989 e il 1992. Non ricordo in quali occasioni precise ma di sicuro ci siamo incontrati nell’ambito di questi appuntamenti dedicati alla poesia sperimentale.

Alla fine degli anni ’80, con la nascita del Gruppo 93 a Milano, si era creato una sorta di coagulo della poesia sperimentale in Italia e lui come altri, come Pignotti, di altra generazione,o Leonetti, partecipava a questi incontri insieme ad esponenti della poesia visiva e della poesia sonora. Gianni Toti s’identificava quasi con la direzione della video poesia che aveva inaugurato: si sapeva di Fluxus e di Nam Jun Paik proprio a Milano poesia ma in generale della videopoesia se ne sapeva ancora poco, anche perchè per praticarla occorrevano macchinari allora costosi, occorreva di fatto la professionalità e le possibilità della RAI. Un’altra occasione di contatto con Toti per me fu quando l’editore Mancosu pubblicò una collana di libri a cui venivano allegate delle audiocassette con la voce del poeta. Nel progetto della collana il nome di Toti mi precedeva o seguiva perché era prevista anche una sua opera, essendo la dimensione orale e sonora così importante per lui. Di Gianni mi colpivano il tono e il timbro della voce: parlava a bassa voce e con un tono quasi vellutato e i contenuti dei suoi discorsi, il modo con cui parlava di poesia, spesso facevano riferimento ad una terminologia di stampo idealistico, quasi crociano. E tutto ciò in contesti sperimentali dove la lingua ufficiale era lo strutturalismo, o il marxismo, o la combinazione tra le due cose in una sola lingua … A me sembrava che Gianni parlasse di poesia con la stessa intensità idealistica di un crociano, a dispetto della sua tecnologia. Non capivo questa cosa che mi sembrava una contraddizione o almeno una stranezza. Successivamente mi sono spiegato il fenomeno con il fatto che la pratica della televisione e delle strutture di produzione industriale, esasperando l’aspetto strumentale e commerciale dell’espressione, finiva con il richiedere quasi per compensazione la nostalgia di un’arte libera e liberata dal mercato. Si pensi al mezzo straordinariamente ricco che era la televisione e si pensi anche all’utilizzo straordinariamente povero che se ne è fatto per motivi sia commerciali, sia soprattutto ideologici. Mi pare allora di poter capire quell’idealismo dei suoi discorsi a fronte della negatività dell’industria culturale.

E’ sorprendente come la poesia di Toti da un certo momento, anche precocemente, ha acquisito una sua fisionomia, un suo stile. Uno stile centrato sul motore del neologismo. Di solito la figura retorica del neologismo non assume un ruolo così centrale in una produzione poetica. Nel caso di Toti credo sia diventato l’emblema della sua creatività. Attraverso questi prefissi e suffissi che finiscono per deformare la parola lasciandola sempre riconoscibile nelle sue metamorfosi combinatorie, Toti vuole non dissacrare ma parodizzare spesso il ruolo stesso del poeta e della poesia, proprio quando in privato collocava la poesia nelle regioni più alte dell’idealità. La desublimazione nel testo avveniva attraverso queste operazioni neologistiche che dovevano mimare, in un certo senso, l’atteggiamento freddo e tecnologico per compensare l’afflato lirico che qui e là appariva. La sua poesia più che ironica è auto-ironica. Più che ironizzare sul mondo, la sua poesia ironizza sul ruolo del poeta nel mondo e sulla concezione che il poeta ha di se stesso. E’ una riflessione continua sulla funzione della poesia ed è metapoesia. E’ quasi incredibile il fatto che questa scrittura tutta sostanziata com’è da neologismi sia una scrittura metapoetica. Toti rifletteva sul significato della poesia attraverso la deformazione lessicale e microlinguistica. Il massimo di astrattezza per l’intenzione metapoetica a fronte invece di un lavoro minimale sugli elementi atomistici del testo che sono interni al singolo lessema. Se si guarda al di là di questi calembour, al di là di questa prima superficie, ciò che si legge è il ‘poetifragio’ per dirla a suo modo. Il naufragio delle avanguardie e delle neoavanguardie che se non erano ciniche alla Sanguineti, andavano di sicuro incontro alla tragedia e al dolore di un fallimento storico radicale. Per coloro che si erano formati nel secondo dopoguerra il crollo delle speranze di miglioramenti sostanziali e di cambiamenti radicali della cultura e della società poteva essere esperito come una vero e proprio naufragio. Dal conformismo consumistico del boom economico alla violenza degli anni di piombo, alla cancellazione successiva, dalla metà degli anni ‘80, del pensiero critico: questa situazione di continua involuzione della storia viene espressa bene dal suo pessimismo solo leggermente coperto dalla patina ‘tecnologica’ dei suoi suffissi e prefissi.

La sostanza dolente, pessimista e forse anche nichilista di questa produzione alla fine emerge con chiarezza. L’intensa e parossistica produzione di calembour si spiega forse come il tentativo poetico di intrattenere inutilmente, ma come una sorta di imperativo morale, nel nulla in cui il naufragio della poesia conduce.