Eugenio Lucrezi
Proposta di lettura
di Biagio Cepollaro
Eugenio Lucrezi è un poeta che ha avviato la sua ricerca ormai quaranta anni fa nel contesto particolare della rivista napoletana Altri Termini, un contesto caratterizzato dalla ricerca spregiudicata che comportava non solo l’uso della lingua poetica non convenzionale ma anche la sperimentazione del contatto della lingua poetica con le dimensioni del visivo, del plurilinguismo, del dialettale. Vi sono anche spesso riferimenti alla lingua latina.
Da Arboraria (1978)
1
che la radice nel cielo veniva
raccontata: scheletrica a
suggere dalla cieca luce: che poi
portava l’umore alla pianta (è il contrario?)
nel buio: dove lo spazio
assomigliava al tempo: e dico dell’uomo,
che vive e poi muore: sopra-sotto
2
che mi capisse: dove
foresta di copule tra il nero e l’azzurro
esprimeva: quando non c’era tempo: quando
dita spiegate delle più varie piante:
dove c’era respiro, e noi no:
che poi:
3
che fosse
da quel punto –
un verde strano:
infinito di sotto e sopra piano
4
che i sessi dell’albero erano troppi
( io ne ho uno, ma corro )
5
che fosse – nei sogni – più mobile:
come a somigliarlo a chi:
perché l’albero è
accelerabile da
rallentabile ma
annerato in linea di chi
( misteriato )
come se noia capisse, come
se segni, pappa e noleggio, all’albero:
come se chi, e l’albero:
albero e dita sue
( lingue feroci )
lontano è l’albero
( curvo chi intanto )
In questo testo è evidente il problema del rapporto tra cosmo e uomo, tra creatura e cosmo vegetale. Si tratta di un rapporto di separazione. E questa umiltà creaturale a cui viene richiamato l’uomo, nonostante la sua presunzione, è sottolineata dalla lingua poetica che continuamente si interrompe, si frantuma mancando costantemente il suo termine di paragone. Di qui la continua interruzione dei versi, i due punti che si affastellano. Vi è distanza e frattura non recuperabili tra la condizione umana e il cosmo: il paesaggio dice soprattutto la distanza e l’inconcludenza. Tutto questo viene ripetuto nel lavoro di ekfrasis operato sulle opere di Paul Klee. La scrittura germina dalla visione della pittura: non si tratta di descrizione del quadro ma di gemmazione. E ciò ricorda gli scritti sull’arte di Emilio Villa, autore che risuonava spesso nell’ambiente della rivista napoletana Altri Termini che, con Tam tam di Adriano Spatola, per tutti gli anni ’70 e ’80 aveva investito proprio nella relazione tra le arti. Paul Klee diventa origine di questa gemmazione di scrittura. In Arboraria che esce come edizione di Altri Termini nel 1989 leggo queste poesie dedicate a Klee:
3
Der Schrank
Rappresentare una porta
che si apre e si chiude
è come dire alla propria anima:
tu mi devi lasciare.
Ma se la porta è chiusa
toccare i paesaggi di fuori
con il legno rugoso
che dall’interno non vedo.
6
Se tutte le linee di questo percorso
corrono l’una verso l’altra
l’incontro si annoda e si aggruma.
Così io apro queste ali di inchiostro
e questa poesia continua,
domani, a colare muta
dentro tutte le altre.
Qui avviene la trasformazione del segno pittorico nel segno verbale, poetico. Questo segno continua quell’unico e iniziale flusso creativo che era partito da Klee. Questa curiosità del poeta per le dimensioni più disparate tocca anche il dialetto dove ci sono prove che Lucrezi lascia di grande interesse. E’ il caso del Cavaliere del secchio del 1995, dove la curiosità per il visivo si sposa alla visionarietà: