Una sorta di rubrica che sto curando per il blog Nazione indiana ha l’obiettivo di suggerire delle auto-antologie poetiche. Il poeta viene invitato a ripercorrere il tragitto compiuto e a riflettere su questo percorso dedicando a ciò una pagina di annotazioni. E’ l’autore stesso che scrive la sua storia e l’intervento dall’esterno è ridotto al minimo. Questa richiesta di riflessione necessaria all’auto-presentazione mi pare che vada in direzione opposta al flusso della rete che per sua natura tenderebbe a non coagulare, fermare, riflettere ma, al contrario, a costituire un continuum di informazioni senza soluzioni di continuità.
Queste auto-antologie vorrebbero opporsi a questa dispersione o disseminazione più o meno euforica che la rete sembra esprimere. Spero che in questo modo si possa dare un’idea della produzione di poeti giunti ad una prima piena maturità letteraria. Questa iniziativa vuole contribuire, in questo caso solo sulla rete, ad offrire un rallentamento riflessivo, in parte correttivo, alla tendenza entropica della diffusione attuale della poesia.
Fin qui sono stati invitati Francesco Tomada, Vincenzo Frungillo, Francesco Filìa, Viola Amarelli, Eugenio Lucrezi, Renata Morresi , Gianni Montieri e, a breve, apparirà l’auto antologia di Italo Testa. Questo è anche un modo, sia pure in minima parte, di restituire alla poesia quella funzione riflessiva, intellettuale e critica che per lo più in questi anni, forse per troppa ricchezza di offerta creativa, sembrerebbe quasi perduta.
Già in questa poesia del 2005 si presenta, quasi come un programma, il lavoro di Italo Testa. Un lavoro teso a trattare la poesia come forse avrebbe voluto il Musil de La conoscenza del poeta, scritto nei primi anni del 900. Qui veniva sottolineata l’idea che il poeta, a differenza dello scienziato, non coglie mai il generale ma sempre il singolare, la singolarità e l’eccezione. Mi pare che Testa si affidi questo compito attraverso un metodo che non è soltanto formale e di scrittura ma è anche un metodo esistenziale, una sorta di resa per la conoscenza, resa alla condizione in cui si è posti dalla storia. Pur nella consapevolezza dell’artificialità di questa condizione, si assume il compito di fare di questa condizione che non può essere mutata facilmente, un luogo di conoscenza attraverso la resa. Una resa psicologica ma non intellettuale, nel senso che la conoscenza continua a penetrare l’esistenza, continua a interrogare l’esistenza come se tutto fosse ancora da comprendere. E in realtà è come se si fosse compreso l’insieme ma i singoli momenti della vita restano ancora tutti da vivere, da vedere. Questo è il secondo tema importante: la visione. La poesia per Testa è immagine anche quando è ritmo. L’immagine è ciò che appare, è ciò che viene inseguito da lui, l’immagine è la luce dell’apparenza, è il senso dell’apparenza. L’immagine è anche ciò che ci è dato, non solo ciò che viene posto indipendentemente da noi ma anche ciò che ci viene donato e il dono viene prodotto dall’arte. C’è una strana combinazione tra necessità e libertà. Si è necessitati in un contesto di alienazione (urbana, industriale, post-industriale) eppure questa necessità lascia degli ambiti di libertà. Da Mattinale in La divisione della gioia del 2010
mattinale
I
fincantieri, 3 a.m.
tre del mattino. le pale meccaniche
ritagliano in campi blu la notte:
alle fermate d’autobus lo sterno
s’alza, s’abbassa, segue un suo ritmo
sordo, illuminato dal bagliore
del gas che avvampa sui cantieri.
quelle sugli angoli, cui il passante
ieri ha venduto la sua innocenza
fissano immobilizzate i fari
tra i container nudi sullo spiazzo.
senza appetito potrà cibarsi
l’automobilista insonne al chiosco
dove un ago ti cala sulla lingua
se non attacchi la vita a morsi:
e con la luce che irrompe sui viali
sciama il disgusto, e può avvicinarsi
il tuo fiato a quello degli altri
che affilano i talloni contro i pali
uguali, sempre, sotto queste spoglie
alle poiane in agguato sulle valli,
le utilitarie sfrecciano e ghermiscono,
depositano le ossa tra le foglie:
tre del mattino, le pale meccaniche
fendono ancora la notte, e immobile
l’airone acquattato sugli scogli
sogna la preda tra le salicornie:
Qui troviamo sullo stesso piano l’elemento biologico e quello artificiale, meccanico. Ormai questa seconda natura ha reso omogenee le condizioni in cui si vive. Un solo sguardo trapassa da un piano all’altro nell’omogeneità dei richiami sonori. E in un certo senso questo rapporto tra superficie e apparenza, tra organico e meccanico ci riporta anche al pittore Hopper, significativo riferimento per Testa. Si tratta della verità non come simbolo ma come immagine e immagine non santificata, ma ordinaria, come il raggio di luce su di una casa per Hopper. Questo è il vero mistero, il vero fascino percettivo della realtà così come appare. Dunque c’è una rivolta sotterranea, silenziosa che non è ideologica, è senza alterità immaginata alla situazione, la rivolta avviene in modo estetico. Viene presentato ciò che uccide: il feticcio come mondo. E’ il presupposto questo di una rivolta ma anche il modo per abitarlo, questo mondo. Perché la dimensione artistica coglie la singolarità di cui si diceva. La dimensione artistica è anche il luogo in cui il nostro personale tempo viene espresso mentre si consuma. Nel 2004 nell’esordio de Gli aspri inganni aveva dichiarato programmaticamente: “Tu al bianco devi cedere, muto / aderire all’indifferenza delle cose”. Questa adesione, questa sorta di senso della terra, terra ormai alienata, deforme questo senso di aderenza alle cose non è nient’altro che aderenza sensibile, sensoriale, percettiva all’indifferenza delle cose. Questa aderenza è un modo per giungere ad una sorta di totalità orizzontale del senso.
Eugenio Lucrezi è un poeta che ha avviato la sua ricerca ormai quaranta anni fa nel contesto particolare della rivista napoletana Altri Termini, un contesto caratterizzato dalla ricerca spregiudicata che comportava non solo l’uso della lingua poetica non convenzionale ma anche la sperimentazione del contatto della lingua poetica con le dimensioni del visivo, del plurilinguismo, del dialettale. Vi sono anche spesso riferimenti alla lingua latina.
Da Arboraria (1978)
1
che la radice nel cielo veniva
raccontata: scheletrica a
suggere dalla cieca luce: che poi
portava l’umore alla pianta (è il contrario?)
nel buio: dove lo spazio
assomigliava al tempo: e dico dell’uomo,
che vive e poi muore: sopra-sotto
2
che mi capisse: dove
foresta di copule tra il nero e l’azzurro
esprimeva: quando non c’era tempo: quando
dita spiegate delle più varie piante:
dove c’era respiro, e noi no:
che poi:
3
che fosse
da quel punto –
un verde strano:
infinito di sotto e sopra piano
4
che i sessi dell’albero erano troppi
( io ne ho uno, ma corro )
5
che fosse – nei sogni – più mobile:
come a somigliarlo a chi:
perché l’albero è
accelerabile da
rallentabile ma
annerato in linea di chi
( misteriato )
come se noia capisse, come
se segni, pappa e noleggio, all’albero:
come se chi, e l’albero:
albero e dita sue
( lingue feroci )
lontano è l’albero
( curvo chi intanto )
In questo testo è evidente il problema del rapporto tra cosmo e uomo, tra creatura e cosmo vegetale. Si tratta di un rapporto di separazione. E questa umiltà creaturale a cui viene richiamato l’uomo, nonostante la sua presunzione, è sottolineata dalla lingua poetica che continuamente si interrompe, si frantuma mancando costantemente il suo termine di paragone. Di qui la continua interruzione dei versi, i due punti che si affastellano. Vi è distanza e frattura non recuperabili tra la condizione umana e il cosmo: il paesaggio dice soprattutto la distanza e l’inconcludenza. Tutto questo viene ripetuto nel lavoro di ekfrasis operato sulle opere di Paul Klee. La scrittura germina dalla visione della pittura: non si tratta di descrizione del quadro ma di gemmazione. E ciò ricorda gli scritti sull’arte di Emilio Villa, autore che risuonava spesso nell’ambiente della rivista napoletana Altri Termini che, con Tam tam di Adriano Spatola, per tutti gli anni ’70 e ’80 aveva investito proprio nella relazione tra le arti. Paul Klee diventa origine di questa gemmazione di scrittura. In Arboraria che esce come edizione di Altri Termini nel 1989 leggo queste poesie dedicate a Klee:
3
Der Schrank
Rappresentare una porta
che si apre e si chiude
è come dire alla propria anima:
tu mi devi lasciare.
Ma se la porta è chiusa
toccare i paesaggi di fuori
con il legno rugoso
che dall’interno non vedo.
6
Se tutte le linee di questo percorso
corrono l’una verso l’altra
l’incontro si annoda e si aggruma.
Così io apro queste ali di inchiostro
e questa poesia continua,
domani, a colare muta
dentro tutte le altre.
Qui avviene la trasformazione del segno pittorico nel segno verbale, poetico. Questo segno continua quell’unico e iniziale flusso creativo che era partito da Klee. Questa curiosità del poeta per le dimensioni più disparate tocca anche il dialetto dove ci sono prove che Lucrezi lascia di grande interesse. E’ il caso del Cavaliere del secchio del 1995, dove la curiosità per il visivo si sposa alla visionarietà:
E ancora, da Le nudecrude cose e altre faccende, L’arcolaio, 2011:
campagna d’inverno
La luce di gennaio che ora è febbraio filtra le foglie
dei sempreverdi
i tronchi con i rami pazienti di vento
questa immane stanchezza di
nuvole in corsa, riepilogo di temporali,
spossa il midollo e la pelle a toccarla si secca
restano, eroi, i cani randagi e le code di uccelli
ci vorrebbe un riposo incessante
un letargo che plachi la crosta e protegga le ossa,
il latte che è inacidito l’hanno
buttato nel pozzo, gli sciocchi.
Sono sempre versi tratti da L’ambasciatrice a dirci quale è l’idea della lingua poetica che ha Viola Amarelli nella poesia intitolata Recherche:
Io ho questa lingua, ereditata. La torco, la smonto la brucio. Rimbalza,
reingoia, la lingua già amara. La spezzo, si spezza, paterna, conata. il
mondo è parole, a cambiarle, il mondo si cambia. Una rosa è una rosa è
una rosa. roseggia. L’ortica orticheggia. e risana.
Questa mi sembra sia l’idea che della poesia ha Viola Amarelli. E’ l’idea di una conoscenza che nasce da un “corto circuito”, come altrove dice, ma che è soprattutto la consapevolezza dell’immagine che noi abbiamo delle cose e del mondo. E l’esperienza così come si configura dipende dal modo con cui mettiamo insieme le parole. La trasformazione della relazione tra noi e il mondo passa attraverso la possibilità di trasformare le parole che quel mondo narrano. La trasformazione prima che pratica è cognitiva. Anzi la trasformazione cognitiva è già pratica alternativa del mondo.
La libertà che si sente, talvolta ilare, nel suo modo di montare i versi per associazione fonica o per continuità dell’immagine, è la libertà di stare nelle cose senza stare al loro gioco ma al contrario ridefinendo le regole del gioco. E’ così che si possono mettere in luce degli aspetti della realtà che con questo modo di fare è possibile mettere in luce mentre non lo è nella seriosità ordinaria. Valga come esempio la poesia “Pater” che ho letto. E’ una poesia drammatica che tratta del tema dell’agonia facendo un omaggio sofferto alla discrezione del morente sullo sfondo di dettagli precisi, dell’ospedale, dei tracciati, del loro colore, delle macchine indifferenti. Si scontrano la neutralità distante del medico e la relazione di affetto che viene conservata nonostante tutto. C’è anche un registro critico che risulta irridente puntando all’epigramma se non all’invettiva. Ciò accade ad esempio, sempre ne L’ambasciatrice, nel caso della tautologica autoreferenzialità dell’ambiente letterario:
io scrivo te
io scrivo te che prefazi me che pubblico il tuo amico che plaude i miei
interventi critici che insieme organizziamo algidi evenenziali ostensioni
di tosti testi nostri diffondendo asemantiche endovene, sintassi
scarrupate, lacerti necrofori. Amen
Qui c’è la denuncia del degrado di un’arte che viene ridotta a gioco di società e di simulacro, di potere fantasmato più che reale.
Il percorso poetico di Francesco Filia potrebbe essere esemplificato già da alcuni versi del suo primo libro Il margine di una città uscito nel 2009.
In questi versi vengono posti i termini del campo semantico, tematico e forse anche ideologico entro il quale Filia lavorerà.
“Creato in un luogo comune di fili sospesi, antenne
e asfalto di tetti addossati l’un l’altro. Sfuggo
all’agguato di bancarelle e ragazzi urlanti nel sole
cercando il freddo di travi che oscillano
nell’ultima stanza. Il grido delle strade si perde
nel grumo irrisolto del giorno, in un pensiero
aggrappato alla sua radice alla sua origine
oscura.”
Già in questi versi c’è il collocarsi di chi scrive in un contesto comune, in un luogo comune, in una città ben caratterizzata da un aspetto caotico di sovrapposizioni di piani: alto e basso, antico e moderno. Rispetto a questo caos che è anche vitalità, anche istintualità, c’è un tentativo di concentrazione attraverso il ritagliarsi uno spazio di solitudine e di riflessione. Eppure il proprio tempo non riesce ad accordarsi col tempo collettivo: il giorno continua ad essere un “grumo irrisolto”, la strada appare soprattutto come “grido”, non come articolazione di senso e il pensiero deve fare il tentativo di restare legato alla sua origine. Ma questa origine è appunto “oscura”. Il contesto è quello di una città luminosa ma di una sostanziale oscurità del senso. Si scoprirà lungo il percorso di Filia che questa oscurità nasce dalla non relazione tra i destini individuali e generazionali e l’insieme della città e della storia. La città come allegoria dell’intera storia.
Ciò che vorrei sottolineare del lavoro di Filia è soprattutto la questione della poesia narrativa. Di una narratività che non incontra l’archetipo del teatro o in generale forme drammaturgiche di relazione ma si confronta direttamente con il romanzo o addirittura con l’epica. D’altra parte ogni parola che si voglia collettiva, che implichi un profondo “noi” alla sua radice, inevitabilmente tende all’epica. Questa poesia narrativa vuole porre sin dall’inizio il soggetto narrante all’interno di un luogo comune di una collettività non si lascia intrappolare nel crepuscolarismo che pure sarebbe possibile. In fondo nella nostra tradizione, da Foscolo a Pagliarani, c’è questa tensione tra le sorti -anche sentimentali- dell’individuo e le sorti collettive. In un certo senso è inevitabile una certa atmosfera crepuscolare, anche di auto-commiserazione del soggetto lirico, se è ancora tale in un contesto del genere. In qualche modo Pagliarani e Filia si ritrovano ad affrontare la stessa questione…
La tensione che Filia stabilisce soprattutto nell’ultimo libro di questa trilogia che sì è andata formando, La zona rossa (Il laboratorio, 2015), si è risolta in una decisione. Tale decisione prevede la collocazione l’individuo in un punto della storia dichiaratamente riconoscibile. Ciò che è privato qui passa decisamente in secondo piano perché è direttamente pubblico. La scelta degli scontri di Napoli, anteprima della tragedia del G8 di Genova, è una scelta non solo politica ed etica ma anche narrativa, di scrittura. E’ come se ponesse la domanda: è possibile oggi alla poesia dire la storia? Il poema pare rispondere di si. E’ possibile se la storia si va a concretizzare in un giorno particolare. L’esperienza di un uomo diventa esperienza collettiva e anche esperienza storica. Filia è bravo ad articolare questo giorno come una sorta di microcosmo allegorico che racconta una sconfitta. Si tratta della sconfitta delle speranze che dall’illuminismo hanno caratterizzato la modernità, attraversando la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa. Ciò che viene meno qui è la possibilità di “barare” come ha fatto la generazione precedente. Non è più possibile credere alle frottole della generazione precedente. Vi è una sconfitta storica materiale, quantificabile, osservabile e non c’è modo di indorare la pillola. E’ questo senso tragico generazionale che Filia in qualche modo ci restituisce attraverso la poesia.
Si considerino i seguenti versi a conclusione:
da Il Margine di una città (Il Laboratorio/ Le edizioni, 2008)
Sei sceso nell’agguato delle strade per provare
che è lì il tuo ultimo respiro, che la tua vita
è nel gorgo di questi palazzi e non oltre
non altrove. La consegna da rispettare.
Da La neve (Fara, 2012)
La cenere dei falò i copertoni delle auto abbandonate
la scaramanzia dei nostri cellulari accesi tutto è pronto
per un oltre di forme geometriche e cristalli da sciogliersi
al sole per essere nel silenzio di esagoni poggiati uno
sull’altro di fiocchi che definiscano il recinto
delle nostre preghiere, per un dono che non chiede
nulla in cambio, se non l’ultimo dei nostri respiri.